Centrale o marginale?

Nicola Campogrande ben rappresenta la maturazione e la trasformazione che la figura del compositore ha avuto nel contesto artistico italiano soprattutto in questi ultimi quindici anni. Superatala fase dello “sperimentalismo”, dell’esoteria ideologica, oggi i compositori italiani sono tornati – se pur con le immancabili difficoltà – sia ad occupare ruoli importanti nelle istituzioni musicali, sia a recuperare una certa quale visibilità presso il pubblico, che non accoglie più la musica dei nostri giorni con la diffidenza mostrata in un passato anche recente. Compositore molto attivo, e con un ricco catalogo ormai alle spalle, ed al tempo stesso impegnato a Torino nel contesto di Sistema Musica (di cui si parla alla fine di quest’intervista), Campogrande – così come i Betta, i D’Amico, e molti altri nel nostro paese – testimonia di una vitalità e di una capacità artistica e professionale, che meriterebbe non solo maggiore attenzione da parte dell’intera comunità, ma soprattutto andrebbe, per così dire, utilizzata al meglio. Ovvero, messa in grado di esprimere tutte le sue potenzialità in un ambito altrettanto ricettivo e a sua volta disponibi-le ad accogliere il contributo di chi possiede, per l’appunto, tali requisiti. Parafrasando proprio una sua dichiarazione, prima o poi qualcosa cambierà.Prima o poi, la generazione ormai quasi ottuagenaria dei direttori artistici italiani andrà finalmente in pensione. Oppure, semplicemente, la nicchia in cui vive la “musica classica” potrà estendersi, allargarsi, fors’anche abbandonare certe posizioni arroccate per guardare al futuro con maggiore ottimismo. In estrema sintesi, questo è il fil rouge della nostra intervista, dal passato al futuro, accogliendo l’invito di Campogrande a renderci conto del momento in cui viviamo e della situazione attuale, senza troppi infingimenti e senza neppure limitarsi alle fin troppo logore doglianze.

Nonostante la lapalissiana centralità della sua figura nella storia della musica occidentale, da ormai mezzo secolo il compositore è messo in ombra, in disparte, sembra quasi accessorio ad un sistema musicale fondato su altri elementi. A suo avviso è solo l’evoluzione coerente di un mercato poco attento ai valori estetici, oppure esistono precise responsabilità dei compositori stessi, che non hanno saputo mantenere vivo il contatto col pubblico?
Se ci si riferisce al fatto che oggi la musica nuova non è di casa nei cartelloni concertistici, credo che la colpa sia in massima parte delle vecchie avanguardie, che hanno volutamente tagliato i ponti con il pubblico. Se invece il discorso è relativo al fatto che la musica colta oggi ha perso la propria centralità nel mondo, la questione è più ampia.Nel gennaio 2005 avevo provato a sintetizzarla su Sistema Musica: “Un bell’articolo pubblicato da Tom Strini sul Milwaukee Journal Sentinel qualche mese fa ricordava giustamente come negli anni Cinquanta chiunque, senza averne letto le pubblicazioni, sapeva che Einstein era uno scienziato di genio; e chiunque, senza aver mai sentito il Sacre, sapeva che Stravinskij era il massimo compositore vivente. I nomi di Toscanini o Bernstein erano noti a quell’uomo della strada che oggi non ha mai sentito pronunciare quelli di John Adams (il compositore più eseguito del pianeta) o di Lorin Maazel e che mai saprà della loro esistenza. È che, come ricorda Strini, sono successe alcune cose non da poco: la produzione delle vecchie avanguardie (dodecafonica, seriale, ecc.) ha rotto i legami con un pubblico che non riconosce musica senza consonanze o ritmi comprensibili; la multiculturalità ha eroso il ruolo della musica classica come vetta indiscussa dell’espressione umana; orchestre ed ensemble dal 1860 si vestono nello stesso modo, suonano nelle stesse sale, interpretano lo stesso repertorio; il crollo dell’idea di socialismo ha contribuito a mettere in crisi il sistema del finanziamento pubblico al mondo della musica classica che, come è noto, non è redditizio e non è in grado di reggersi su un’economia di mercato (si rilegga la nota legge di Baumol). Poi, però, ci sono anche alcuni segnali positivi: il livello delle esecuzioni è senz’altro più alto di quarant’anni fa; Internet permette a giovani free-lance di buttarsi nella mischia senza il filtro di editori e case discografiche; l’allungamento delle aspettati-ve di vita fa sopravvivere gli ascoltatori qualche anno in più. Ma non c’è nulla che possa far seriamente pensare ad un’inversione di tendenza. Allora, la cosa seria da fare è sapere che si agisce all’interno di una nicchia. Sapere che se un politico decide che è meglio spendere denaro pubblico per sostenere un festival pop anziché un teatro d’opera, non ci si può più opporre facendo riferimento a condivise ragioni storico-culturali; che, se vostro figlio vi guarda sbigottito quando uscite per andare al Conservatorio, non è affatto detto che un giorno erediterà la vostra passione e il vostro abbonamento, anzi; che l’affermare la propria predilezione la musica classica, quando si esce dal nostro guscio dorato, oggi è davvero equivalente a preferire la Nu-Metal alla Cubana. Ci va bene perché, mediamente, sappiamo ancora incutere un vago timore e, dunque, spesso si viene trattati con un qualche rispetto. È il genere di rispetto, però, che suscita l’abito grigio che indossiamo quando ci tocca andare a chiedere un fido in banca – nonso se rendo l’idea”.
Nel rapporto con l’interprete, singolo o piccolo gruppo da camera, si è mantenuta presso-ché inalterata una certa quale dialettica, che vede il compositore ancora in grado di collaborare e sviluppare un percorso artistico insieme agli interpreti stessi. Che ruolo ha, dunque, nel contesto attuale la collaborazione tra interpreti e compositori, e come sarebbe possibile svilupparla, anche mirando ad unrinnovamento della programmazione e ad un ampliamento dei repertori?
Mi sembra che la nuova musica abbia cambiato pelle anche grazie ad una nuova generazione d’interpreti, i quali, anziché rifiutarsi di suonare ciò che viene scritto oggi, hanno saputo chiedere ai compositori di inventare musica capace di offrire gusto, piacere, passione a chi è chiamato a suonarla. La mia esperienza in questo senso è estremamente positiva: la possibilità di lavorare con interpreti come Mario Brunello, Gautier Capuçon, Michael Flaiksman, Andrea Lucchesini, Sonig Tchakerian, il Trio Debussy, Corrado Rovaris, Elena Casoli, Germano Scurti, Elio, Lucia Minetti – per citarne soltanto alcuni – non solo ha arricchito il mio modo di sentire la musica, ma ha rappresentato e rappresenta uno stimolo importantenel pensare a chi deve poi confrontarsi con le mie partiture. Di rimando, la disponibilità e l’allegria con la quale interpreti come loro si mettono al lavoro su musica appena nata mi pare una bella conferma della nuova vitalità del rapporto tra chi scrive e chi suona.
In Italia non esiste la figura del “compositore residente”, e certo l’attuale crisi delle strutture musicali istituzionali non favorirà l’affermarsi di un simile ruolo. Eppure, non ritiene sarebbe stato davvero opportuno cercare di stabilire anche nel nostro paese delle “residenze”, così da favorire la diffusione e la divulgazione della musica dei nostri giorni?
Non solo opportuno: sarebbe vitale, per i compositori e per le istituzioni musicali. I compositori portano energie e idee a chi si mette in relazione con loro e, per formazione, hanno tutte le caratteristiche per contribuire in modo determinante alla formulazione di una stagione, alla gestione di un’attività di produzione, alla divulgazione delle idee. Curiosamente, sembra che nessuno in Italia se ne renda conto…
Chiunque entri in contatto con il mondo della composizione italiano matura immediatamente l’impressione che si tratti di un universo limitato, spesso rimasto estraneo a quanto è andato accadendo nel resto del mondo, e fortemente lobbistico, nonostante oggi non esistano più le condizioni per esercitare un controllo simile a quello che ha marcato la vita musicale italiana dagli anni Sessanta agli Ottanta. Esistono, a suo avviso, le condizioni per il necessario rinnovamento?
La rivoluzione sta arrivando dal basso. Credo che saranno gli interpreti ad imporre a poco a poco musica nuova, aperta al dialogo, composta per le orecchie di chi la suona e di chi la ascolta. È vero, la situazione nazionale, nel suo complesso, sembra impermeabile a quanto sta accadendo nel mondo della creazione musicale. Ma, prima o poi, arriverà una nuova generazione di direttori artistici, di responsabili, di organizzatori che si renderanno conto di quanto una fetta crescente di musica italiana sia trascinante, appassionata, allegra e capace di rappresentare il presente con tutti i suoi brividi, le sue vertigini, le sue sfide.
Un ruolo centrale nel mondo della composizione lo avevano gli editori. Oggi tale ruolo è fortemente ridimensionato, e i compositori possono tentare di riappropriarsi dei “mezzi di produzione”, caratteristici del loro lavoro. Qual è la sua opinione in proposito?
Per alcuni anni io ho fatto professionalmente il compositore “in proprio”. Ero fortemente sfiduciato nei confronti del mondo editoriale. Poi ho incontrato persone che mi hanno fatto cambiare idea e oggi sono convinto che sia vincente la sinergia tra compositori che si sanno organizzare e editori che riescano a farsi aiutare nel lavoro di promozione. Con Universal, con Sonzogno, con RaiTrade – i tre editori che attualmente pubblicano la mia musica – questo accade e, seppure in un contesto nel quale, è verissimo, il ruolo editoriale è fortemente ridimensionato, credo che un dialogo aperto tra compositori e mondo dell’editoria possa ancora essere foriero di risultati interessanti.
Oltre che nella composizione, lei opera anche attivamente nel mondo dell’organizzazione musicale torinese, e Sistema Musica è una preziosa testimonianza di una proficua – e rara – collaborazione tra pubblico e privato. Qual è secondo la sua esperienza, e quale dovrebbe essere la formula giusta per coordinare e non disperdere gli sforzi degli operatori privati della cultura? Quale il ruolo reciproco di pubblico e privato, specie in questo momento particolarmente difficile dal punto di vista economico?
Sistema Musica è una associazione torinese, costituita nel 1999, che riunisce la Città di Torino con il Festival Torino Settembre Musica, la Biblioteca Musicale e con Torino Danza, l’Accademia Corale “Stefano Tempia”, Lingotto Musica, il Conservatorio, il Teatro Regio, l’Orchestra Filarmonica di Torino, l’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai, l’Unione Musicale e, come soci sostenitori, l’Academia Montis Regalis, l’Associazione “la Nuova Arca”, la De Sono. È un esempio unico di come in una grande città tutte le forze musicali possano cooperare per dare vita a uno strumento di comunicazione unitario (il mensile Sistema Musica, che io dirigo e che diffonde circa 30.000 copie) e ad alcune altre iniziative di interesse comune. In un momento in cui nella gestione dei finanziamenti alle attività culturali si sta ragionando sul rapporto tra pubblico e privato, questo effettivamente è un esperimento al quale forse vale la pena guardare con attenzione.

– Fabrizio Festa, Musicainsieme, Aprile-May, 2006